28 gennaio 2025
Nella primavera del 1894 Antonín Dvořák è a New York, impegnato come direttore del prestigioso National Conservatory of Music. Nel tempo libero lo si può incontrare fra i viottoli di Central Park o al Grand Central Terminal mentre sbircia, da vero appassionato di treni, le locomotive americane. Per il 9 marzo 1894 la sua agenda prevede la partecipazione a una serata in cui verrà eseguita la prima assoluta di un concerto per violoncello e orchestra scritto da Victor Herbert, suo collega al National Conservatory.
Sedendosi in sala quella sera, Dvořák è curioso. Quando era ancora un giovane compositore aveva scritto un solo concerto per violoncello (completato e pubblicato diversi anni dopo la sua morte) e in passato aveva addirittura affermato: «il violoncello è un bello strumento, ma il suo posto è nell’orchestra o nella musica da camera. Non è infatti adatto a fare il solista, il suo registro medio è piacevole, ma la voce superiore stride e quella inferiore ringhia!». Una convinzione destinata a svanire al termine dell’esecuzione del concerto di Herbert. In preda all’entusiasmo, Dvořák corre nei camerini per congratularsi con il collega. «Stupendo! Stupendo!» gli confessa abbracciandolo, prima di chiedergli se possa consultare la partitura.
Comincia così a maturare in lui il desiderio di comporre un nuovo concerto per violoncello e - diversi mesi dopo aver ascoltato l’opera di Herbert - Dvořák si sente finalmente pronto ad abbozzarne le prime note. Prende allora vita la lunga introduzione dell’Allegro che, facendo attendere per qualche minuto il solista, suggerisce da subito il rapporto di parità che si desidera instaurare fra il violoncello e l’orchestra. Le melodie protagoniste del primo movimento vengono allora anticipate nell’introduzione prima di essere eseguite dal solista e una di queste, presentata dal primo corno, ricorda un commovente spiritual della tradizione americana («ogni volta che la sento, comincio a tremare tutto», ci confessa Dvořák).
La scrittura procede nell’inverno fra il 1894 e il 1895, accompagnando gli ultimi mesi di permanenza del compositore negli Stati Uniti. Il rientro in Europa è infatti previsto per la primavera del ’95 e le pagine più malinconiche del Concerto risuonano della nostalgia di casa. Mentre compone Dvořák desidera riabbracciare i suoi cari e fra questi la sorella della moglie, l’attrice Josefina Čermáková, afflitta in quei giorni da una grave malattia.
Sperando di poterla ancora vedere al suo ritorno, il compositore decide di omaggiarla citando nell’Adagio ma non troppo la melodia di Lasst mich allein (“Lasciami in pace”), brano di Dvořák per voce e pianoforte particolarmente amato da Josefina. Le note di questo tema sono suonate dal violoncello poco dopo l’inizio del movimento, introdotte da un’improvvisa agitazione dell’orchestra che traduce in musica il momento in cui Dvořák apprende la notizia delle gravi condizioni della cognata.
La natura dell’affetto di Dvořák per Josefina è uno dei segreti ben custoditi dalla Storia. Qualcuno sostiene che sia stata uno dei primi amori del compositore e che addirittura questi, anche dopo averne sposato la sorella, ne sia rimasto innamorato per tutta la vita. Una prova a favore di questo amore coltivato in segreto è riconoscibile nell’ultimo movimento del concerto.
Quando Dvořák si imbarca alla volta dell’Europa, crede ormai di aver completato la sua op. 104. Eppure, poco dopo il ritorno del compositore in Boemia, Josefina muore. Il lutto innesca un lavoro di revisione del Concerto e al termine dell’Allegro moderato viene aggiunta una coda in cui il solista, piuttosto che spendersi in una prova da virtuoso, partecipa con l’orchestra a un momento di raccoglimento in cui compare ancora l’ombra della melodia di Lasst mich allein. L’energico finale che ne segue annuncia, per contrasto, la vittoria del ricordo sulla morte. Una memoria che sopravvive, inossidabile, insieme a uno dei concerti per violoncello più amati ed eseguiti al mondo.
Un amore sul quale gli storici non avranno invece alcun dubbio lega Robert Schumann alla compositrice Clara Wieck, per lui punto di riferimento fondamentale in un’esistenza in cui si alterneranno sempre attimi di gioia incontenibile e profondi accessi depressivi.
È durante una di queste crisi che Schumann si stabilisce con la moglie a Dresda «nel più completo smarrimento mentale e morale». La città gli è stata consigliata per via del «clima più mite» e il medico che lo visita poco dopo il suo arrivo appunta: «brividi e debolezza, insieme a un forte dolore e una peculiare paura della morte che assume la forma di un terrore per le alte colline o le case, nonché per tutte le sostanze metalliche, comprese le chiavi».
Mentre i dottori continuano a prescrivere «bagni minerali, lunghe camminate e ipnosi», Schumann fatica a riavvicinarsi alla scrittura («la musica attraversa i miei nervi come un pugnale», racconta a un amico). Qualche attimo di pace gli è però concesso dallo studio del contrappunto, una tecnica compositiva che prevede la sovrapposizione e il dialogo fra due o più melodie indipendenti, divenuta in quei giorni una preziosa enigmistica nella quale rifugiarsi.
L’impulso per tornare a comporre arriva finalmente una sera del dicembre 1845: di ritorno da un concerto in cui ha ascoltato una sinfonia cui è particolarmente affezionato (la Grande di Franz Schubert), Schumann avverte il desiderio di ritornare a comporre. Pochi giorni dopo, mentre la malattia sembra accennare qualche lieve miglioramento, inizia a scrivere le prime battute della Sinfonia in do maggiore.
La stesura della bozza avviene in soli dieci giorni, ma l’elaborazione e l’orchestrazione (ovvero la traduzione del brano per una compagine orchestrale) impegnano quasi un anno. Non ancora riemerso dal suo malessere, Schumann torna sulla partitura spesso con grande fatica, «strappando a sé stesso, in un doloroso ma benefico sforzo», ogni pagina dell’opera che accompagna il suo processo di guarigione.
«Ho iniziato a scrivere mentre ero ancora mezzo malato e mi sembra che questo si possa avvertire nella musica» - racconterà Schumann - «anche se ho cominciato a sentirmi in me mentre lavoravo all'ultimo movimento, mi sono ripreso completamente solo dopo aver terminato l'intero pezzo».
Il Sostenuto assai - Allegro ma non troppo che apre la Sinfonia è secondo il suo autore «colmo di questa lotta contro la malattia e del suo carattere capriccioso e ostinato». Schumann affida ai primi istanti del movimento uno dei tratti peculiari dell’opera: la contrapposizione fra caratteri musicali differenti. Servendosi dello studio del contrappunto e ispirandosi all’instabilità del proprio umore, sovrappone il canto lugubre degli ottoni allo slancio fiducioso degli archi, imbastendo un dialogo fra due diversi linguaggi emotivi.
Anticipato dallo Scherzo, in cui i violini affrontano un’impegnativa «corsa a perdifiato», l’Adagio espressivo ha invece come protagoniste quattro note che vengono rimestate dall’orchestra come un ricordo doloroso e piacevole al tempo stesso, un’ossessione dalla quale non sembra esserci pace fino alla conclusione del movimento.
Liberata dalla nostalgia dell’Adagio, la Sinfonia si conclude con l’Allegro molto vivace in cui Schumann, ormai prossimo alla guarigione, omaggia la preziosa vicinanza di Clara in quei giorni di malattia citando - come Dvořák - una composizione per voce e pianoforte: An die ferne Geliebte (“All’amata lontana”) di Beethoven, accennata dall’oboe nel cuore di questo ultimo movimento.
I colpi di timpano che concludono la Sinfonia in do maggiore decretano il ritorno di Schumann alla serenità, almeno per qualche tempo.
Più di mezzo secolo dopo la morte del compositore, il filosofo Karl Jaspers avrebbe paragonato certe opere d’arte nate dalla sofferenza dei propri autori «alle perle che nascono solo grazie all’infiammazione delle conchiglie: come non si pensa alla malattia dell’ostrica ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di queste opere non si pensa al malessere che ne ha condizionato la nascita».
Ascoltando i passaggi più luminosi della Seconda Sinfonia, sembra quasi possibile dimenticare come le sue pagine abbiano raccolto il sedimento di una lotta tenace contro il dolore.
Francesco Cristiani
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26 novembre 2024
Quando nel 1982 una trasmissione della BBC avrebbe consultato alcuni fra i più prestigiosi compositori viventi per raccogliere i loro pareri su l'Adagio per archi di Barber, il premio Pulitzer Virgil Thomson lo descriverà come «una scena d’amore non priva di qualche dettaglio, fluente e riuscita; affatto drammatica, ma anzi molto appagante!». Un giudizio insolito per quello che di norma è considerato «uno fra i brani più tristi mai scritti», eseguito negli Stati Uniti come «musica funebre nazionale» per accompagnare le esequie di Einstein o Kennedy e divenuto nel tempo colonna sonora per film o pubblicità in virtù di un’eccezionale carica drammatica.
Eppure, nella sua particolarità, il commento di Thomson suggerisce fra le righe la cornice ispirata e quieta nella quale l’Adagio viene composto.
Nell’estate del 1936 Samuel Barber, non ancora trentenne, è già riconosciuto come uno dei compositori più promettenti della sua generazione. Da poco insignito del prestigioso Prix de Rome, si trova con il partner di una vita Giancarlo Menotti nelle Alpi austriache per una vacanza all’insegna del lavoro e della ricongiunzione con la natura. Nelle lettere scritte durante quei giorni, Menotti racconta di come Barber «è davvero di ottimo umore, ha litigato con pochissime persone e ne ha insultate solo una o due!».
Durante la sua permanenza, Barber scrive buona parte del Quartetto per archi op. 11, il cui secondo movimento (Molto adagio) è ispirato alla placidità della vita campestre descritta nelle Georgiche di Virgilio e riflessa dalla vallata austriaca. Questa pagina, generata da un’atmosfera tutt’altro che drammatica, non è che l’antenata dell’Adagio per archi.
Nel 1938 infatti Barber trascrive per orchestra d’archi il Molto adagio e lo invia col nome Adagio per archi ad Arturo Toscanini, auspicando che questi ne curi una prima esecuzione. Il celebre direttore coglie da subito il fascino di questa traduzione e ne dirige la prima assoluta in diretta radiofonica con la NBC Symphony Orchestra di New York: inizia così la diffusione di quello che sarebbe diventato il più celebre brano del compositore statunitense.
La première dell’Adagio nel novembre del 1938 viene trasmessa pochi mesi prima dell’invasione tedesca della Cecoslovacchia e dell’inclusione di quest’ultima nella geografia scellerata della Germania nazista. Fra le vittime delle politiche discriminatorie attuate durante l’occupazione della Cecoslovacchia vi è anche il compositore Pavel Haas, che per via delle sue origini ebraiche viene recluso nel Campo di concentramento di Terezín.
Situato a qualche decina di chilometri da Praga, Terezín funge da luogo di facciata da indicare anche a quelle istituzioni - come la Croce Rossa - che si allarmino in merito alla ferocia delle politiche naziste. Il campo di prigionia conta così fra i suoi detenuti scrittori, drammaturghi e musicisti cui viene permesso di scrivere o comporre; possiede un coro, gruppi di musica da camera, un’orchestra e persino una jazz band chiamata - crudelmente - Ghetto Swingers. Quest’atmosfera surreale viene rievocata dallo Studio per archi, composto nel 1943 ed eseguito anche durante le riprese del documentario propagandistico Theresienstadt. Testimoniando la ricerca condotta con tenacia da Haas sul suo linguaggio, lo Studio è attraversato da un’inquietudine sotterranea pronta a manifestarsi in un finale incalzante ed esasperato.
Pochi mesi dopo la composizione dello Studio per archi, Terezín esaurisce la sua funzione propagandistica e i suoi occupanti sono indirizzati verso i campi di sterminio limitrofi: Pavel Haas, non ancora cinquantenne, muore ad Auschwitz nell’ottobre del 1944. Testimone dei suoi ultimi giorni è il dedicatario dello Studio per archi, il direttore ceco Karel Ančerl. Sopravvissuto alla prigionia, sarebbe riuscito a recuperare dopo la fine della Guerra gli spartiti dello Studio - che si credevano irrimediabilmente perduti - dando nuova vita all’opera di Haas.
Settant’anni prima delle tragiche vicende che avrebbero accompagnato la nascita dello Studio per archi, Georges Bizet compone le musiche di scena per L’Arlésienne, testo teatrale firmato dallo scrittore Alphonse Daudet e ispirato a un suo omonimo racconto. La genesi dell’opera vede Bizet e Daudet impegnati in una complicità tutt’altro che scontata. Nell’Ottocento, infatti, un compositore coinvolto nella redazione di musiche di scena solitamente «deve far da spalla al drammaturgo, per il quale non è un collaboratore ma piuttosto una specie di trovarobe aggiunto».
Comparendo a poche scene dal tragico epilogo de L’Arlésienne, nel quale il protagonista si toglie la vita per via di un amore non corrisposto, l’Adagietto accompagna il dialogo fra due personaggi secondari che ricordano con nostalgia il proprio passato. Trattandosi di musica destinata a un testo teatrale, si deve immaginare la sua melodia «commovente e modesta» come una colonna sonora che accompagna con garbo questo incontro.
Nonostante i migliori auspici che ne accompagnano la stesura, L’Arlésienne viene accolta con scherno dal pubblico parigino e la sua première si risolve in un doloroso fiasco. Durante l’esecuzione dell’Adagietto, il direttore de Le Figaro addirittura deride a voce alta i due personaggi in scena e, a spettacolo finito, Daudet esce dal teatro «con le orecchie ancora rintronate dalle sciocche risate che avevano accolto le scene più tragiche». Tuttavia, qualche mese dopo alcune delle musiche scritte per L’Arlésienne vengono raccolte in una prima suite che include anche l’Adagietto: in questa nuova veste, il lavoro di Bizet incontra un successo immediato.
Composto in una cornice idilliaca come il Quartetto da cui è tratto l’Adagio di Barber, scritto da un musicista ceco come lo Studio per archi e abitato a tratti da un sobrio equilibrio affine a quello de L’Adagietto, il Quartetto op. 96 viene scritto da Antonín Dvořák a Spillville nell’estate del 1893. Il compositore risiede in questo piccolo paese nel cuore settentrionale degli Stati Uniti dopo un anno di lavoro a New York come direttore del National Conservatory of Music of America, professione lautamente remunerata che testimonia un riconoscimento ormai internazionale della sua opera.
L’atmosfera quieta e risolta di queste vacanze estive risveglia in Dvořák il desiderio di tornare a comporre dopo ben dodici anni un nuovo Quartetto (eseguito da OFT in una versione per orchestra d’archi in cui le parti originariamente scritte per due violini, una viola e un violoncello sono eseguite dalle rispettive sezioni dell’orchestra, con l’introduzione anche di una quinta parte per contrabbasso).
Alzandosi di buon ora - come suggerito dalle annotazioni sul manoscritto che citano «come splende il sole!» o «sono le sei di mattina» - Dvořák si lascia ispirare dalla campagna lambita dalle prime luci dell’alba. La scrittura procede spedita, al punto che l’opera è pronta in poco più di dieci giorni. «Grazie a Dio. Sono contento. È nato così velocemente!», appunta felice non appena conclusa la partitura.
Il nome Americano, apposto dall’editore di Dvořák, allude non solo al luogo di nascita del Quartetto, ma anche alla presenza in questa pagina di temi che rievocano la tradizione musicale popolare degli Stati Uniti. Non si tratta tuttavia di trascrizioni appuntate e riportate dal compositore, ma piuttosto di invenzioni che ci restituiscono la sua idea di ‘americanità’ in musica.
Una piccola eccezione è presente nel Molto vivace, dove Dvořák non cita un tema popolare bensì il pigolio delle piranghe scarlatte, piccoli volatili che accompagnano le sue passeggiate fra le campagne di Spillville.
Francesco Cristiani
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29 ottobre 2024
Nel cuore dell’estate Johannes Brahms ama rifugiarsi all’ombra delle montagne. Nell’agosto del 1885 la scelta ricade su un piccolo paese delle Alpi austriache, Murzzüschlag: meta sciistica d’inverno, verdeggiante cartolina d’estate. Giunto da Vienna dopo un lungo anno di lavoro, vi si stabilisce dopo essersi presentato alla questura locale come «musicista itinerante»: un eufemismo visto che al tempo, ormai cinquantenne, è uno dei compositori più celebrati d’Europa.
Non appena insediatosi in città, si dedica a lunghe passeggiate fra i boschi che gli servono a «mettere in ordine le idee» per quando, rientrato in casa, compone. Quell’anno, sul tavolino della sua residenza a Murzzüschlag lo attendono i primi due movimenti di una nuova Sinfonia, abbozzata l’estate precedente e ora in attesa di essere completata.
Con l’arrivo dell’autunno, il manoscritto della Sinfonia è pronto. Tornato a Vienna, Brahms invita alcuni critici e musicisti fidati a un ascolto in anteprima dell’opera, eseguita per l’occasione in una versione ridotta per due pianoforti. Alla fine di questa prima esecuzione, l’atmosfera è fredda, persino imbarazzata. Alcuni dei presenti credono in un lavoro forse troppo complesso e cerebrale. In preda all’insicurezza, Brahms manda allora a diversi amici lo spartito del suo lavoro per ricevere qualche conferma della sua buona riuscita. A uno di questi, che gli restituisce un parere entusiasta, confessa: «Sono molto più insicuro di quel che non si creda di fronte ai miei lavori!».
Scrupoli ipocondriaci e un’impietosa autocritica erano infatti stati da sempre compagni di vita per Brahms. Quando era un giovane e promettente compositore, gli avevano impedito per anni di scrivere una Prima Sinfonia. D’altronde, come si poteva scrivere una sinfonia - una sorta di romanzo per orchestra, una delle forme musicali più complesse e definitive - a pochi anni dalla morte di Beethoven? Come si poteva insomma diventare grandi dopo i grandi?
«Non puoi avere un'idea di ciò che si sente, avvertendo dietro le spalle i passi di un gigante», ci avrebbe confessato se lo avessimo incontrato a quel tempo. Solo dopo un lungo e cauto avvicinamento, a quarantaquattro anni Brahms aveva pubblicato finalmente la sua Prima Sinfonia, aprendo un filone di opere arrivato, in quell’estate del 1885, al suo quarto capitolo.
Una Sinfonia n. 4 che, a scapito dello scetticismo della prima esecuzione con due pianoforti, suscita subito l’entusiasmo di diverse figure del panorama culturale cittadino, primo fra tutti il direttore Hans von Bülow, deciso a dirigerla in diverse città europee. Il compositore stesso poi, ascoltandola eseguita in prova, ne rimane soddisfatto. «A me proprio non dispiace» - scrive rinfrancato - «e piace anche ai musicisti» dell’Orchestra di Meiningen, che Brahms stesso avrebbe diretto per la prima assoluta in programma già per la fine dell’ottobre 1885.
La sera della première il pubblico dev’essere rimasto sorpreso dall’assenza di un’introduzione, che predispone invece l’atmosfera nelle prime tre sinfonie di Brahms. L’Allegro non troppo della Quarta Sinfonia infatti entra subito nel vivo del suo racconto, con un tema che sembra sospirato dai violini e poi ripetuto subito, come per effetto di un’eco, dal resto dell’orchestra. A dire il vero, un’introduzione era stata immaginata da Brahms, per poi essere in seguito cancellata, come se avesse urgenza di farci sentire le note che saranno protagoniste di tutto questo primo, drammatico movimento.
Introdotto da singole sezioni dell’orchestra, il secondo movimento - l’Andante moderato - risponde alla gravità del primo movimento con sicurezza e serenità. Si tratta di un momento di passaggio della Sinfonia che conduce verso l’Allegro giocoso, il cui discorso agitato e volubile sembra trascrivere in musica il racconto di una persona felice. Qui di nuovo il pubblico di Meiningen si deve essere sorpreso: il triangolo, finora mai utilizzato da Brahms nelle sue sinfonie, compare per la prima volta a sottolineare i momenti più concitati di questa pagina, compreso un finale che sembra persino concludere, per quanto è assertivo, l’intera Sinfonia.
Il ‘vero’ finale è però affidato all’Allegro energico e passionato, introdotto con la solennità di un coro da tutti i fiati (cui si aggiungono i tromboni, coinvolti qui per la prima volta dall’inizio dell’opera), che eseguono un tema di otto note preso in prestito dalla Cantata BWV 150 di Johann Sebastian Bach. Questa prima esposizione introduce un ciclo di variazioni in cui le otto note vengono elaborate, parafrasate, rielaborate dall’orchestra. Un gioco enigmistico in cui Brahms fa mostra di una straordinaria proprietà di linguaggio, consegnandoci al contempo la sua idea di modernità: l’innovazione, l’originalità, il diventare grandi dopo i grandi è perseguibile solo attraverso uno «studio accanito del passato» che possa renderlo d’ispirazione per le rivoluzioni del presente. E in un Ottocento in cui il romanticismo ha espresso tutta la sua magnificenza, il «passato» musicale cui fa riferimento Brahms è quello limpido, inossidabile, essenziale della musica di Bach.
Il finale dell’Allegro energico e passionato, che mette un punto alla produzione sinfonica di Brahms, viene accolto la sera della prima esecuzione da un pubblico festante: gli orchestrali di Meiningen avevano indovinato la bellezza di un’opera che, sin dalla sua prima esecuzione, avrebbe riscosso un grandioso successo.
Al tempo in cui la Sinfonia n. 4 di Brahms viene scritta, l’Ottocento volge al termine dopo aver contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo moderno dell’egittologia. Organizzando numerose e attente spedizioni scientifiche, gli studiosi europei avevano infatti contribuito alla maturazione di questa disciplina, attratti dal mistero dell’Antico Egitto. Un fascino ancora oggi immutato che ha ispirato il compositore Ahmed El Saedi nella scrittura di Egyptian Scenes, opera commissionata da OFT in occasione dei duecento anni dalla nascita del Museo Egizio di Torino.
Invitandoci a immaginare quattro scenari ispirati all’epoca dei Faraoni, Egyptian Scenes rievoca l’antico attraverso il linguaggio della contemporaneità. Nella sua scrittura El Saedi ricorre volentieri alla presentazione di un tema che, affidato inizialmente a un solo strumento, viene poi ripreso ed elaborato dall’orchestra durante la rappresentazione in musica dei quattro episodi.
Come racconta l’autore, il Preludio richiama una parata celebrativa per il Faraone; la Danza del Tempio - preceduta da un’Intermezzo ispirato ai complessi ritmi della tradizione musicale araba - traduce in musica le movenze di una celebrazione rituale; il Finale, da ultimo, ci immerge fra le schermaglie di un’antica battaglia.
Francesco Cristiani
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04 giugno 2024
È stato Massimo Mila a coniare l’espressione «generazione dell’Ottanta» per unificare, dal punto di vista della ricostruzione storica, una tendenza al rinnovamento della musica italiana desiderosa di emanciparsi dall’egemonia culturale del melodramma. Più che un gruppo con una poetica comune, dunque, si trattava di una generazione maggiormente aperta allo scambio con altre culture musicali e a sua volta stimolata dallo sviluppo della conoscenza della musica del passato, in particolare di quella del Barocco e del Rinascimento italiano.
Mila elenca cinque nomi di autori nati tutti fra il 1876 e il 1883: in ordine cronologico Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella. Non tutti avrebbero seguito la stessa strada, nessuno di loro rimase estraneo al teatro musicale, ma quello di Respighi è l’unico caso in cui sia stata raggiunta una vera e propria sintesi fra linguaggio teatrale e strumentale. Abbandonando molto presto la forma della sinfonia, Respighi optò piuttosto per una soluzione più antica, quella della suite, per legare episodi musicali distinti, tutti caratterizzati da una forte connotazione visiva. Era accaduto con Fontane di Roma nel 1916, quindi con I pini di Roma nel 1924 e con Feste Romane nel 1928, per approdare a una nuova forma di poema sinfonico diverso da quello ottocentesco e più in rapporto con il diffondersi, nei primi decenni del nuovo secolo, di una cultura dell’immagine a portata di un pubblico estremamente ampio grazie all’apporto delle riviste e dei libri illustrati.
Violista nell’orchestra di San Pietroburgo all’età di 22 anni, allievo per la composizione e l’orchestrazione di Nikolaj Rimskij-Korsakov, Respighi portò nella musica italiana un senso del colore e del dinamismo che rappresentava realmente un’eccezione ai suoi tempi. Anche la scelta di rinunciare alla grande orchestra e di far ricorso a un organico più contenuto è dipesa, per lui, dalla volontà di aderire a un contenuto visivo.
Tanto è delicata ed elegante la pittura di Botticelli, tanto lo è l’impressione musicale che ce ne trasmette Respighi nel Trittico da lui scritto nel 1927. Il linguaggio, debitore dell’esperienza che il compositore aveva maturato con la serie delle Antiche arie e danze, è basato su associazioni di idee che evocano la dolcezza della stagione primaverile attraverso il gioco degli abbellimenti e l’allegria dei balli campestri, l’Adorazione dei Magi con il ricorso alla tradizione della musica pastorale, La nascita di Venere tramite l’uso dei modi armonici della Grecia antica e un movimento ondivago, flessuoso, che suggerisce la presenza del mare.
Benché passi per essere un campione dell’italianità in musica, Respighi ha avuto una vocazione internazionale che l’ha portato a cercare e a conoscere notorietà soprattutto all’estero sia come autore, sia come direttore d’orchestra e come pianista, in quest’ultimo caso soprattutto in veste di accompagnatore della moglie, la cantante e compositrice Elsa Olivieri Sangiacomo.
Il Trittico Botticelliano debuttò al Konzerthaus di Vienna nel settembre del 1927 e nello stesso anno, nel mese di giugno, Respighi diresse la prima esecuzione della suite Gli uccelli al Teatro Municipal di São Paulo in Brasile. Si tratta di una serie di trascrizioni che, proprio come in Antiche arie e danze, trasportano nell’orchestra una serie di musiche per clavicembalo o per liuto del Sei e del Settecento. Il Preudio proviene da un brano clavicembalistico di Bernardo Pasquini, La colomba da un pezzo per liuto di Jacques de Gallot, La gallina da una delle più note delle Pièces de clavecin di Jean-Philippe Rameau. Respighi non si limita però a trascrivere, ma aggiunge e inventa: per esempio la sezione finale della Gallina, quasi tutta la parte dell’Usignolo, che si basa su pochi spunti di un anonimo inglese del Seicento e che non manca di citare ironicamente il wagneriano Mormorio della foresta, nonché l’episodio conclusivo, nel quale viene liberamente rielaborata la Toccata sul verso del cucco ancora di Pasquini. Se il rapporto con le fonti è rigoroso, giacché Respighi ne rispetta le melodie, le armonie e i ritmi, la versione orchestrale le rinnova completamente con un gioco di timbri che lavora sui dettagli, ora ponendoli in primo piano ora lasciandoli sullo sfondo, e che appare del tutto in linea con esperienze di mascheramento dell’antico nel moderno a lui contemporanee, comprese quelle della cosiddetta fase neoclassica di Stravinskij.
La Sinfonia n. 92 in sol maggiore di Haydn è conosciuta con il titolo Oxford ma nel 1788 venne composta, in realtà, per un committente francese, il conte d’Ogny, membro della Loge Olympique che organizzava una stagione di concerti a Parigi. Come Haydn organizzasse la gestione della musica che scriveva, e quanta autonomia avesse in questo rispetto alle mansioni che svolgeva a servizio del Principe Esterházy, non è ancora del tutto chiarito dagli storici. Fatto è che egli vendette la stessa sinfonia, insieme ad altre due pur destinate a Parigi, anche al Principe Krafft-Ernst di Oettingen-Wallerstein, e che al momento di ricevere una laurea honoris causa da parte dell’Università di Oxford, nel 1791, presentò come nuova opera sempre la stessa Sinfonia in sol maggiore, che da allora porta appunto quel nome. Il minimo che si possa dire è che doveva giudicarla molto buona, e in effetti anche oggi è ritenuta tra i capolavori assoluti all’interno della sua vasta produzione sinfonica. Sicuramente è anche una di quelle nelle quali Haydn fa più ampio sfoggio di arguzia e di ironia. Lo schema del movimento d’apertura è per lui consueto, Adagio-Allegro, ma la parte introduttiva è eccezionalmente breve e si limita a preparare il tema principale, mentre l’Allegro è spiritoso per il gioco delle imitazioni contrappuntistiche e per un’armonia che, specie verso la conclusione, spazia verso tonalità lontane dal sol maggiore d’impianto. Il secondo movimento è un Adagio in tre parti: un tema di grande bellezza, una sezione centrale più ritmata e una ripresa del tema orchestrata in modo più variato. Nel Minuetto Haydn adotta una scrittura robusta a cui si contrappone la leggerezza del Trio, al quale le cui irregolarità ritmiche conferiscono un aspetto persino umoristico. Il Finale si basa su un tema bipartito, con una semifrase ascendente e una discendente che Haydn continuerà a elaborare per tutto il corso del movimento dando pieno sfoggio del suo mestiere, della sua grazia e della sua ironia.
Stefano Catucci
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21 maggio 2024
In un dipinto che raffigura l’inaugurazione del Teatro Regio di Torino, nel 1740, ai due lati estremi dell’orchestra sono ritratti due fagottisti, probabilmente Paolo Besozzi, autore prolifico per il suo strumento, e Carlo Palanca, virtuoso torinese al tempo celebre. L’opera in scena è Arsace di Francesco Feo, uno dei nomi in vista della scuola napoletana di allora, ma quel che qui interessa è la natura dei fagotti imbracciati da Besozzi e Palanca: strumenti di concezione relativamente nuova e che dalla Francia, dov’erano stati messi a punto durante il regno di Luigi XIV, si erano diffusi rapidamente in tutta Europa. In Italia la presenza del fagotto barocco è attestata inizialmente a Venezia, intorno al 1690, poi se ne seguono le tracce a Parma, Napoli, Milano, Roma e Bologna, dove ne è registrata la presenza per la prima volta nel 1702, fino ad approdare a Firenze nel 1709. I suoi interpreti erano già specializzati, la discussa parentela con la dulciana di età rinascimentale era già dimenticata e d’altra parte la tessitura della musica barocca, che tendeva a polarizzare i suoi registri estremi, aveva richiesto l’ideazione di uno strumento a fiato basso, che rinforzasse la percezione dell’armonia e all’occorrenza partecipasse alla realizzazione del basso continuo.
Il fagotto barocco era diviso in quattro parti, disponeva di tre chiavi e aveva un’articolazione diversificata, in parte corta e sottile, in parte lunga e più spessa con un’ala in alto e un’uscita a campana in basso. Passando da una regione d’Europa all’altra, però, il registro dell’accordatura poteva cambiare: sappiamo che in Francia aveva una sonorità più cupa, con il La corrispondente a una frequenza di 390 Hertz, e in Italia più brillante, salendo a 430-440 Hertz, cosa che poi divenne la regola anche nel Nord Europa. L’inventario del Pio Ospedale della Pietà di Venezia, dove Vivaldi prestò servizio dal 1703 al 1740, conta il possesso di una dulciana nel 1662 e di due nuovi fagotti a partire dal 1718. I 38 Concerti che Vivaldi dedicò a questo strumento, due dei quali incompleti, e ai quali se ne dovrebbe aggiungere uno “doppio” per oboe e fagotto, datano tutti fra il 1720 e il 1741. Come ha scritto Eleanor Selfridge-Feld in un saggio dedicato alla musica strumentale veneziana di inizio Settecento, «Vivaldi tratta il fagotto con una notevole facilità e familiarità, scrivendo con una vena che sembra vena molto più libera rispetto al suo trattamento di altri strumenti a fiato. L’idioma dello strumento è modellato su quello del violino: arpeggi, scale rapide, bassi albertini diventano elementi standard del suo linguaggio per questo strumento, insieme a salti che ne coprono l’intera tavolozza sonora». Il basso albertino, fra parentesi, è un tipo di accompagnamento arpeggiato che produce una base ritmica omogenea per la melodia e che prende il suo nome da un compositore veneziano, Domenico Alberti, che a inizio Settecento ne fece largo uso sul clavicembalo.
L’osservazione di Eleanor Selfridge-Feld, però, fa riferimento al modo in cui Vivaldi ha assegnato al fagotto un ruolo di solista, piuttosto che di accompagnamento o di riempimento. È proprio il suono gutturale, opaco del fagotto ad averlo attratto per coglierne tanto i lati patetici quanto quelli brillanti. Alternando lirismo e virtuosismo, cantabilità e agilità, Vivaldi ha inventato un lessico musicale e sentimentale che avrebbe marcato l’esistenza musicale del fagotto ben oltre l’epoca barocca, attraversando anche le successive migliorie tecniche dello strumento.
La tonalità di Sol, comune a tutti i brani in programma, nella musica di Vivaldi trasmette oltretutto un ampio spettro di sentimenti: vitalità, arguzia e piacere disinibito quando è maggiore, furia, ansia, dolore e lamento quando è minore. Così nel Concerto per archi e basso continuo KV 156 si assiste a una tipica combinazione di contrasti dinamici, complessità ritmica, senso drammatico e dialoghi orchestrali che sfociano in un’eccezionale, specie per l’epoca, intensificazione espressiva.
L'Adagio e fuga in do minore di Mozart nasce nei primi anni del suo trasferimento a Vienna, 1782-83, ma risente sia del suo stile precedente, sia degli esercizi che stava allora compiendo sul contrappunto: dalla trascrizione per quartetto d’archi e per strumento a tastiera di alcune Fughe di Bach, tratte dal Clavicembalo ben temperato e dall’Arte della fuga, fino all’abbozzo di una trascrizione per clavicembalo di una Fantasia di Froberger. Inizialmente si trattava solo di una fuga in do minore concepita per due clavicembali. Diversi anni dopo, nel 1788, Mozart vi aggiunse un’introduzione Adagio articolando il tutto in una scrittura a quattro parti per strumenti ad arco.
A partire dal 1930, tornato in Brasile dopo un soggiorno di sette anni a Parigi, Heitor Villa-Lobos si dedicò intensamente a un ruolo di diffusione del repertorio classico nel suo paese, con un’attività infaticabile di direzione d’orchestra e di promozione dell’educazione musicale. Con l’iniziativa “Excursão Artística Villa-Lobos” attraversò molte città del Brasile portando la musica classica dove non era mai stata prima, mentre con la pubblicazione di spartiti e arrangiamenti della “Colleção Escolar”, base per il lavoro di docenti e studenti nelle scuole, alternò rielaborazioni di danze brasiliane con trascrizioni per coro o per piccoli ensembles di opere classiche. La “Colleção Escolar” fu d’ispirazione per le celebri Bachianas Brasileiras ma anche per altri brani che si rifanno a materiale di origine popolare come le Cirandas, melodie giocose e per lo più infantili che Villa-Lobos elabora senza perderne il sapore originario, ma trasfigurandole in sofisticatissima eleganza. Quella chiamata Ciranda Das Sete Notas venne fin dal principio destinata al fagotto, strumento che ne rimane protagonista anche nella successiva versione di Villa-Lobos per duo con pianoforte. La prima esecuzione, diretta dall’autore, ebbe luogo a Rio de Janeiro nel 1933. Le sette note sono quelle che compongono una sorta di scala in do maggiore, dal do al si, ma che di fatto danno vita a un disegno circolare che attraversa tutta la composizione. Esposte inizialmente in contrasto con il cromatismo di quelle che le accompagano (si - si bemolle – la – sol diesis – sol– fa diesis – fa), vengono per così dire chiarite dal fagotto, al quale Villa-Lobos assegna una scrittura agile e brillante che spazia lungo tutta la sua estensione sonora, salvo farsi più lirica nelle parti lente, dove il solista sembra quasi commentare il materiale musicale affidato all’orchestra d’archi.
Stefano Catucci
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23 aprile 2024
Chiamiamolo Emanuel. Tutti facevano così alla sua epoca, dato che spesso avevano doppi o tripli nomi. Sappiamo che anche in casa Bach era la regola e possiamo vantare a nostra volta un diritto di familiarità se consideriamo che con un disco, un CD o un servizio in streaming possiamo ascoltare la sua musica più facilmente di quanto potesse fare lui stesso. Secondogenito di Sebastian, fu per trent’anni (1738-1768) alla corte di Federico II di Prussia, dove ebbe come superiore un flautista, compositore e costruttore di flauti, Johann Joachim Quantz, che proprio per queste sue caratteristiche divenne il preferito del re, notoriamente flautista dilettante. La gerarchia significava qualcosa alla corte di Postdam e Federico, perciò, suonava solo la musica preparata per lui da Joachim: che le molte Sonate per flauto e i sei Concerti composti da Emanuel per quello strumento fossero destinati al re è dunque da escludere, tanto più che sono tecnicamente impegnativi, mentre Joachim aveva la delicatezza di moderare le difficoltà della parte solistica. Inoltre alcuni dei Concerti di Emanuel, compreso quello in Sol maggiore H. 445, sono adattamenti di pagine originariamente destinate ad altri strumenti: in questo caso l’organo, in altri il violoncello. Quantz, dal canto suo, scrisse per sé quasi 300 concerti, cosa che fa escludere anche l’ipotesi quella musica fosse stata preparata da Emanuel per lui. Il flauto, però, era uno strumento eccezionalmente popolare in quel tempo e in quell’ambiente. Lo si considerava perfetto per un nuovo stile che si distaccava dalla tradizione barocca ed esprimeva una sensibilità più moderna, per certi aspetti già proiettata verso gli sviluppi del linguaggio classico e romantico. Lo si chiamava empfindsamer Stil, uno stile sentimentale, ricco cioè di espressività emotiva. Storicamente è stato un passaggio presto oscurato dai successivi sviluppi, ma alla metà del Settecento ebbe molta diffusione, specie in Germania, ed Emanuel ne fu il rappresentante più illustre.
Intorno alla corte di Potsdam, comunque, i flautisti non mancavano: una delle ipotesi è che Emanuel abbia composto Sonate e Concerti per alcuni dei tanti allievi di Quantz o che abbia adattato quelli per organo e per violoncello a uso di un virtuoso francese, Pierre-Gabriel Buffardin, di cui teneva nel suo appartamento un ritratto dipinto da suo figlio, che aveva chiamato Johann Sebastian come il padre. Di fatto il Concerto in Sol maggiore è quasi un manifesto dell’empfindsamer Stil: transizioni armoniche inaspettate, ritmica molto varia, frequenti cambiamenti di atmosfera, polifonia ridotta al minimo ma in compenso un senso della struttura che evidentemente rappresentava il legame più forte con l’insegnamento e l’esempio del grande padre, che in un’occasione famosa (7 maggio 1747) ebbe modo di presentare al re insieme a un altro fratello, il primogenito Wilhelm Friedemann.
Nel primo movimento di questo e di altri concerti Emanuel inizia esponendo una dopo l’altro due soggetti, quindi li sviluppa armonicamente e ritmicamente, li pone in contrasto e li riporta a sintesi nella conclusione. È l’impostazione germinale di quella che sarebbe poi diventata l’architettura per eccellenza dello stile classico, la forma-sonata. Ma è anche il segno di un’inventiva straordinaria che nelle mani di Emanuel articola ogni soggetto in una serie di sottoepisodi tematici, così che le idee si moltiplicano e si susseguono senza perdere nè coerenza né slancio. L’Adagio che si apre con un motivo patetico e il Presto finale, che già indica le movenze di un rondò ruotando intorno a una sorta di ritornello energico, permettono a Emanuel di dare piena evidenza al ruolo del solista e di sperimentare, nel rapporto con l’orchestra, soluzioni che avrebbero avuto anch’esse una lunga storia dopo di lui.
Il nome di Carl Reinecke è oggi quasi dimenticato, eppure nell’Ottocento è stata una delle figure eminenti della musica tedesca: allievo di Mendelssohn e di Liszt, amico di Schumann, con il quale aveva pure studiato per un breve periodo, maestro di Max Bruch e di tanti illustri compositori non tedeschi (fra questi il norvegese Grieg, il cèco Janáček, lo spagnolo Albéniz, il lituano Čiurlionis), Reinecke fu anche pianista di rango e direttore d’orchestra e negli anni in cui fu alla guida del Gewandhaus di Lipsia ebbe modo, fra l’altro, di condurre la prima esecuzione del Requiem tedesco di Brahms. Fra parentesi aveva anche lui molti nomi, Carl Heinrich Carsten, ma nel tempo gli usi erano cambiati e diventò più abituale farsi chiamare con il primo. Fra le sue composizioni figurano diverse Serenate, alcune per pianoforte solo. Quella per archi in Sol minore op. 242 risale al 1898, quando aveva 74 anni, ed è una sorta di libera ricapitolazione delle sue esperienze musicali. I sei movimenti in cui si articola non sono legati l’uno all’altro ma paiono concepiti come episodi distinti e rapsodici. Nell’Arioso si possono riconoscere reminiscenze schumanniane, la Cavatina ha un tempo irregolare di 5/4 e un solo di violoncello, il Finale è basato su una melodia popolare russa che probabilmente si associa alla dedica per il duca Georg Alexander von Mecklenburg-Strelitz, che in Russia aveva vissuto a lungo e che, violoncellista dilettante, aveva una propria orchestra d’archi. Il movimento più sorprendente è però la Fughetta giojosa, il cui sviluppo a quattro voci viene presentato in forma prima lineare, poi rovesciata, e infine si trasforma inaspettatamente in un allegro valzer.
Stefano Catucci
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12 marzo 2024
Protagonista della rivoluzione prodotta nel Novecento dal jazz, il sassofono è rimasto sostanzialmente ai margini della musica classica. Lo strumento ideato negli anni Quaranta dell’Ottocento dal belga Adolphe Sax, trasferito a Parigi dal 1842, è stato sì presente in orchestra, talvolta anche con funzioni solistiche, ma raramente è stato esplorato allora nelle sue piene possibilità sonore ed espressive, tanto che persino uno sperimentatore di materie strumentali come Luciano Berio dedicò la sua Sequenza IX di in prima battuta al clarinetto (1980) e solo in una seconda versione (1981) la adattò alle possibilità del sax contralto. Nel passaggio fra Otto e Novecento, è significativo che la maggior parte degli autori di formazione accademica nella cui musica compare il sax solista siano stati francesi. Debussy per esempio, con la sua Rapsodia del 1911, nella quale trae da quello strumento soprattutto un colore esotico — tanto che la si chiama anche Rapsodia moresca o Rapsodia orientale — lasciandogli, di fatto, poco spazio: sembra anche che vi lavorò malvolentieri dovendo soddisfare una commissione venuta da una sassofonista americana, Elise Hall. Ravel, che notoriamente lo mette in primo piano nel Boléro per dare corpo a un’atmosfera dionisiaca, ma che lo inserì anche nell’orchestrazione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij, nell’episodio intitolato Il vecchio castello. Più avanti Jacques Ibert, Paul Maurice e Paul Bonneau, nomi oggi meno noti, senza contare musicisti che avevano comunque trascorso lunghi periodi in Francia come Villa-Lobos.
Chi studia sassofono deve perciò rifarsi spesso a trascrizioni: c’è chi risale fino ai Concerti per flauto di Telemann, chi a Vivaldi, ma naturalmente la musica di tempi più vicini è anche la più adatta, specie se ha il lirismo e la variabilità temperamentale di Vocalise, la canzone senza parole che Rachmaninov scrisse per la voce di soprano di Antonina Nezhdanova nel 1915 e che rimane tra le sue pagine più famose. La citazione delle prime quattro note della sequenza medievale del Dies Irae, in apertura, non riflette probabilmente solo un’idea fissa di Rachmaninov, ma anche una maniera di pensare alla catastrofe della Grande Guerra, già intravista poco tempo prima nella trascrizione per voce e pianoforte di alcuni canti dalla sua Liturgia di San Giovanni Crisostomo.
Glazunov fece il suo primo incontro con il sassofono proprio a Parigi, probabilmente durante la Grande Esposizione del 1889, quando insieme a Rimskij-Korsakov diresse una serie di musiche russe per un’iniziativa patrocinata dal suo mentore, Mitrofan Beljaev. Glazunov se ne innamorò, anche se lo utilizzò soltanto verso la fine della sua vita in composizioni dedicate come il Quartetto in si bemolle, per sassofoni soprano, contralto, tenore e baritono, e il Concerto in mi bemolle per sassofono contralto e orchestra d’archi. Scritti fra il 1932 e il 1933, quando l’autore era fra i 67 e i 68 anni (sarebbe morto a 71 nel 1936), vennero pubblicati entrambi come op. 109. Glazunov era stato l’enfant gâté della nuova musica russa, compositore prolifico e instancabile anche nel promuovere opere altrui, in particolare di Balakirev e di Musorgskij, riconosciuto dai contemporanei per il suo spiccatissimo talento, in rapporti di reciproca disistima con Stravinskij e amato, invece, dal giovane Sostakovic: chissà che non vi sia proprio l’esempio di Glazunov dietro l’interesse di quest’ultimo per il sax. Prestigio e autorevolezza gli permisero di passare indenne attraverso la Rivoluzione, più per rispetto, forse, che per ammirazione. D’altra parte la sua musica non aveva niente di contrario alle direttive di partito, anzi si rifaceva a un fondo neoclassico che traspare esemplarmente anche dal Concerto per sassofono. Brillantezza e lirismo appaiono in perfetto equilibrio, con in più la sobrietà di uno strumento solista la cui voce non si presta alla retorica, ma che è trattato in modo insolitamente elegante.
Scrive Marilena Licata a proposito del suo Brainstorming, brano commissionato dall’Orchestra Filarmonica di Torino in vista di questo concerto: «Il Brainstorming è una modalità di dialogo creativo in cui, dato un argomento da trattare o problema da risolvere, ogni partecipante espone liberamente le proprie idee (anche le più assurde), che andranno poi analizzate e valutate. Seguendo lo stesso principio, il brano nasce come “gioco musicale” nel quale ogni strumentista propone ai propri compagni del materiale “su cui riflettere”, da commentare, accompagnare o contraddire con i più vari gesti musicali. L’ampia libertà esecutiva dona un margine di imprevedibilità che rende il brano un organismo “vivo”, sempre cangiante. Un episodio centrale ricrea un rigoroso ordine, scandito dai “rintocchi” ora di una viola, ora di un violoncello; ma questo equilibrio ha breve vita, con un ritorno al dialogo frenetico che degenera nel caos».
Con la suite di brani celebri di Astor Piazzolla che chiude il concerto si torna all’arrangiamento che assegna al sassofono un ruolo di rafforzamento e di esplicitazione del materiale musicale preesistente. Tutto quel che si è detto sul tango, sulla sua sensualità e il suo spleen, sulla sua nascita nei bassifondi e il suo approdo ai piani più alti del mondo musicale, deve molto all’opera di Piazzolla, il cui Nuevo Tango è stato di volta in volta glorificato o tacciato di infedeltà per averne fatto musica da concerto e non da ballo. Presentarlo in una versione non caratteristica, senza cioè l’intervento del bandoneon, serve proprio a sottolinearne i valori musicali, a cominciare da quelli melodici, e a riconoscere in Piazzolla uno dei grandi autori del Novecento musicale, capace di superare le barriere fra il popolare e il classico. La voce del sax mantiene del resto quella fisicità scabra, a tratti afona e a tratti penetrante, che evita il rischio di estetizzare troppo una musica sempre carnale e piena di passione, ricca di intimità e di sentimenti da condividere.
Stefano Catucci
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13 febbraio 2024
Füsun Köksal è una delle voci più originali della nuova musica, capace di saldare le esperienze delle avanguardie del secondo Novecento con la sensibilità tutta contemporanea per un discorso più attento ai valori della comunicazione con il pubblico. Turca, formatasi negli anni Ottanta nel suo paese e nei due decenni successivi tra Germania e Stati Uniti, ha preso dalla lezione di Pierre Boulez soprattutto la ricerca timbrica, mentre da uno dei suoi modelli, Luciano Berio, il gusto per l’imprevisto, per la teatralità anche della musica strumentale e per il dialogo con il passato. On Reminiscence per orchestra d’archi è il suo lavoro più recente, scritto in vista della quarta edizione del Premio intitolato a Mario Merz, ed è una composizione che si concentra in particolare sulla percezione del tempo in musica, con le sue differenze e le sue inevitabili asincronie. Ecco le parole con le quali Füsun Köksal ha voluto presentare On Reminiscence: «come suggerisce il titolo, il brano ha una visione retrospettiva presentata attraverso strati di flusso temporale scanditi dal fenomeno della ripetizione. Il primo strato si riferisce a un tentativo di stimolo della memoria che si manifesta con la ripetizione degli stessi oggetti musicali con minimi cambiamenti fra i momenti nei quali appaiono. Lo scheletro dell’oggetto rimane lo stesso, ma in ogni ripetizione gli strumenti solisti espandono e riflettono le enunciazioni dell’orchestra attraverso sottili aggiustamenti, anche se ci troviamo continuamente ricondotti allo stato iniziale. Il secondo strato riguarda la reiterazione di idee musicali molto marcate in periodi di tempo che si ampliano. In questo caso la ripetizione si riferisce a una forma di ritorno e di memoria più concreta rispetto alla prima parte».
Nonostante una lunga vita che lo ha portato ben oltre il limite della Seconda Guerra Mondiale, la figura di Ildebrando Pizzetti resta per noi consegnata ai primi decenni del Novecento, quando ebbe modo di consolidare uno stile personalissimo, indipendente, tale da renderlo un caso a sé stante nella storia della musica italiana e proprio per questo, a torto, poco eseguito nei tempi più recenti. I Canti della stagione alta risalgono al 1930 e rappresentano per un verso un brano d’ambiente, perfetto pendant del Concerto per l’estate, sinfonia che aveva composto due anni prima. Per un altro verso sono a loro volta una forma sperimentale di sinfonia con strumento solista, dato che l’orchestra è impegnata non meno del pianoforte e che questo, pur rimanendo in primissimo piano, dialoga incessantemente con il “pieno” strumentale enunciando i temi che l’orchestra via via integrerà con variazioni, sviluppi e digressioni. Il senso di Pizzetti per la melodia non viene mai meno, ed è appunto il pianoforte a farsene carico, specie nei primi due movimenti, come se la sua funzione fosse quella di stimolare e di provocare l’orchestra. La forma è quella classica del concerto: un tempo vivace all’inizio, un Adagio al centro, forse la parte più densa di risonanze emotive, e un finale in forma di Rondò che alterna momenti vivaci ad altri più meditativi. Il corpo musicale dei Canti della stagione alta è però continuamente cangiante, fino a una conclusione ciclica che riprende prima il tema d’apertura e poi, più in generale, l’atmosfera lirica del primo movimento.
Personalità sui generis anche quella di Zoltán Kodály, compositore ungherese che condivise con Béla Bartók le ricerche etnomusicologiche sul campo ma che, vissuto da bambino nel piccolo villaggio di Galánta, oggi in Slovacchia, aveva con la musica popolare un rapporto non solo di studio, ma di formazione. La Filarmonica di Budapest gli commissionò nel 1933 un brano per celebrare i suoi 80 anni di vita e in quell’occasione Kodály annodò i suoi ricordi infantili alla conoscenza di una raccolta di danze popolari del suo paese d’origine pubblicata a Vienna più di un secolo prima. Visitando quelle regioni, nel Settecento Telemann aveva scritto che per un compositore intelligente dieci giorni passati con i musicisti ungheresi e gitani avrebbero significato dieci anni di idee per nuova musica.
Forse Kodály non conosceva la lettera in cui Telemann scriveva questa cosa, ma il suo atteggiamento è identico: scrive infatti una musica nuova, autoriale, facendo leva però sull’esuberanza di un materiale di base virtualmente inesauribile. Le sue Danze di Galánta sono vivaci, virtuosistiche, libere dal punto di vista formale, precise nel rispetto dei modelli di base e brillanti nella rielaborazione compositiva. Molti altri musicisti si sono ispirati allo stesso patrimonio popolare, primo fra tutti Brahms, ma mai come in Kodály si riconosce l’adesione di un vissuto che conferisce a queste Danze una verità espressiva senza precedenti.
Stefano Catucci
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23 gennaio 2024
Cresciuto in una famiglia di artisti, padre e tre fratelli pittori, pittore lui stesso, Karl Amadeus Hartmann è stata una delle personalità musicali più significative e influenti del Novecento tedesco, oggi sorprendentemente trascurata. È stato anche uno dei pochissimi a prendere posizione contro il regime nazista fin dalla presa di potere di Hitler ma a percorrere la via di una “emigrazione interna”: Hartmann rimase infatti in Germania ma si isolò dalla vita pubblica riparando a Kempfenhausen, villaggio a sud della sua nativa Monaco di Baviera, sul Lago Starnberger. Prima di questo ritiro, che non gli impedì né le scomuniche del regime né i contatti sotterranei ma intensi con il mondo musicale fuori dalla Germania, aveva fatto in tempo a far eseguire, a Praga, il poema sinfonico Miserae, che testimoniava il dramma delle deportazioni degli avversari politici del Nazismo in un nuovo campo appena costruito in Baviera e il cui nome sarebbe risuonato sinistro anche durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale: Dachau.
Concerto funebre è un’altra testimonianza dell’attenzione che Hartmann continuò a rivolgere all’attualità, come pure del fatto che aprire gli occhi, in Germania, non fosse impossibile. I tempi della scrittura, fra il luglio e l’ottobre del 1939, riflettono lo choc per gli eventi che, nei mesi precedenti, avevano preparato l’avvio della Seconda Guerra Mondiale: l’annessione della regione dei Sudeti da parte del Terzo Reich, l’occupazione della Cecoslovacchia, la creazione del protettorato tedesco di Boemia e Moravia. Hartmann guardava tutto questo come se fosse un esito tragicamente atteso e prevedibile, l’effetto coerente di una politica di privazione delle libertà ed esaltazione della potenza delle armi: «volevo scrivere tutto ciò che pensavo e sentivo», ha scritto Hartmann al suo amico e mentore Hermann Scherchen, «e questo si traduceva in forma e melodia». La musica, infatti, non ha nulla di cronachistico, ma ha il carattere di una riflessione che si allontana dai luoghi comuni della rappresentazione della guerra e della paura, ma aspira a un significato generale adottando un linguaggio comunicativo ed emotivamente molto diretto. «Alla disperazione intellettuale e spirituale del periodo si contrappone un’espressione di speranza nei due corali all’inizio e alla fine»: così scrive ancora Hartmann offrendo una chiave di lettura del Concerto funebre.
Il primo movimento, Introduzione: Largo, si basa infatti sulla melodia di un corale hussita, «Voi che siete i guerrieri di Dio», che colloca l’aspirazione alla libertà nella tradizione della cultura cèca moderna, dato che quel tema compare anche in un’opera fondativa come Má vlast (La mia patria) di Bedrich Smetana. L’Adagio successivo è invece una riflessione angosciosa sulla mancanza di speranza, una linea cantabile romantica del violino che l’orchestra rende sempre più inquieta accompagnandola quasi come una marcia militare. Nell’Allegro di Molto la frenesia e il panico sono al centro della scena, il virtuosismo è alla sua massima intensità, le fermate improvvise dell’orchestra, che lascia spazio solo ai sussurri del violino, è come un affaccio sull’orlo dell’abisso che ha per modello sonoro l’apertura del Quartetto per archi n. 5 di Bartók. Il finale, Corale, lansgsamer Marsch, ruota intorno alla citazione di una marcia funebre russa, «Vittime immortali», di cui Hermann Scherchen aveva pubblicato negli anni Venti una versione per coro dopo averla ascoltata proprio in Russia, dov’era stato prigioniero durante la Prima Guerra Mondiale: compare anche nella Sinfonia n. 11 di Sostakovic. Il tono è oscuro ma non senza aperture, la commemorazione dei caduti si collega con un’attesa di riscatto e di futuro testimoniato proprio dalla conclusione del brano. Il Concerto funebre fu eseguito per la prima volta nel 1940 a San Gallo, in Svizzera, e Hartmann riuscì a essere presente.
Nel suo libro sui rapporti fra Edward Elgar e il Modernismo musicale, Harper-Scott individua nell’aggancio al “qui e ora” dell’esistenza concreta il perno della poetica del compositore inglese. Modernista per generazione e per spirito, in continuo e conflittuale confronto con le posizioni del teorico della musica austriaco Heinrich Schenker, Elgar sarebbe stato un figlio infedele delle correnti e delle tendenze estetiche del suo tempo. Non un tradizionalista, come spesso lo si è dipinto, ma una figura indipendente che ha cercato di traghettare l’eredità del Romanticismo verso il Novecento scegliendo un’estetica anti-dialettica e, quindi, anti-beethoveniana. La Serenata in mi minore per archi op. 20 è uno dei suoi brani più noti. Risale al 1892, quando l’autore aveva 35 anni. Venne eseguita per la prima volta quattro anni dopo e manifesta esemplarmente la ricerca di Elgar, che trasfigura in eleganza i tormenti romantici e aspira a una poetica della leggerezza nella quale ogni gesto musicale sembra voler opporre un argine anche formale alle espressioni dei sentimenti tipicamente moderni della solitudine, della disperazione e della lotta.
Il Concerto in re minore BWV 1052 appartiene all’epoca in cui Johann Sebastian Bach prestava servizio alla corte del principe Leopold di Anhalt-Köthen, periodo nel quale si dedicò molto alla musica strumentale, e in particolare ai concerti con uno o più strumenti solistici, ma al quale avrebbe attinto più tardi anche quando fu maggiormente impegnato in quella sacra: i primi due movimenti del Concerto sarebbero stati da lui riutilizzati nella Cantata BWV 148 e il terzo nella Cantata 1088. La versione che ci è giunta vede in realtà nel ruolo del solista il clavicembalo ma la partitura originale, dedicata piuttosto al violino e forse a sua volta derivata da un precedente per organo, è stata in seguito più volte ricostruita fino alla Nuova Edizione delle opere di Bach (Neue Bach Ausgabe), dove Wilfried Fischer ne ha proposto nel 1970 una revisione tuttora di riferimento.
Tutti i movimenti sono in minore, caso insolito nell’opera di Bach e più in generale nel concertismo barocco, e la virtuosità della parte affidata al violino esalta il rapporto con l’orchestra in uno scambio eccezionalmente denso che ha il suo cuore, come sempre, in una pratica rigorosa e inventiva del contrappunto.
Stefano Catucci
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21 novembre 2023
Quando Beethoven scrisse che la sua Sinfonia Pastorale, la n. 6, doveva essere intesa come «espressione di sentimenti» e non come «pittura», toccò un tema sensibile nella sua epoca, volendo smarcarsi dal genere allora in voga dei “ritratti” della natura in musica, ma al tempo stesso individuò un confine ambivalente. La musica infatti non produce immagini, eppure interagisce con la dimensione visiva. Non esprime significati determinati, concetti linguistici, eppure interagisce con il linguaggio anche dove non ci sono versi da cantare. Le modalità dell’interazione possono essere le più varie. Si va dal figurativismo esplicito, la cui grammatica sonora è stata fissata per la prima volta nel Barocco e trova in Vivaldi il suo esempio più illustre, all’onomatopea, basti considerare la varietà dei canti degli uccelli esplorati da Messiaen, oppure dall’allusione evocativa, come in Debussy, al ricalco dei movimenti ritmici delle nuvole, della pioggia o dell’acqua, in questo caso con una molteplicità di esempi che solo per brevità si possono ricondurre a Mendelssohn e a Wagner. In tutti i casi i sentimenti sono sempre in primo piano, si genera un tipo di percezione atmosferica che oggi sappiamo essere fondamentale in ogni processo cognitivo ma che, nel caso della musica, è soprattutto ciò che permette di trasferire l’esperienza del suono ad altri mezzi di espressione, immagine e parola in primo luogo.
I brani in programma rappresentano altrettante sfaccettature di questo discorso. Rachmaninov, per esempio, rende spesso visibili nella sua musica i percorsi interiori della meditazione anche senza doverli di necessità riferire a un’immagine o a una storia. Gli basta scurire i toni, spingerli fino a un un lirismo introspettivo, o al contrario farli esplodere nell’energia più vitale, per restituire il senso di una fantasmagoria di colori emotivi. Così è già nel suo giovanile Quartetto per archi, datato 1889, di cui portò a termine solo due movimenti quasi come un esercizio accademico ma che acconsentì fosse eseguito nella versione per orchestra d’archi, due anni dopo, da parte di una formazione di studenti del Conservatorio di Mosca. L’inglese Frederick Delius sceglie a sua volta la forma visiva degli Acquerelli per restituire immagini impressionistiche che rinviano tanto al paesaggio quanto alla figura umana: la mescolanza di stili che caratterizza molta della sua musica, sensibile anche all’influsso della matrice afroamericana, si condensa qui in composizioni che tendono alla bidimensionalità, cioè a effetti coloristici volutamente appiattiti da una scrittura che esalta l’omogeneità sonora degli strumenti ad arco.
Nelle suites delle Antiche Arie e Danze Respighi ha cercato piuttosto la via della rievocazione storica senza ricorrere alla narrazione, ma a una forma di riscrittura del passato svolta con gli occhi del presente. Nella n. 3, del 1931, la base è data da quattro opere per liuto di carattere e provenienza diversa, tre del xvi e uno del xvii secolo. Tutte vengono rivisitate e adattate alla formazione orchestrale creando un’atmosfera auratica, lontana, con passaggi che delineano sensibilmente il ritratto di un’epoca oggetto, per la sua generazione, di un interesse speciale, come fonte di un’ispirazione poetica e musicale priva di nostalgia, ma in grado semmai di aggirare l’ipoteca accesa sulla musica moderna dall’eredità del Romanticismo.
Proprio al Romanticismo guarda invece la Serenata n. 1 di Robert Fuchs, composta nel 1874. Nella maestria della scrittura, come pure nel lirismo del movimento di apertura o nella delicata grazia del secondo, in forma di minuetto, c’è la volontà di riconnettersi con un tempo perduto che di nuovo si può ricondurre a un’immagine, stavolta a un ritratto, quello di Mendelssohn. Fuchs è noto più che altro per i nomi dei musicisti che gli sono stati allievi, personalità come quelle di Hugo Wolf, Gustav Mahler, Franz Schreker. Tutte figure inquiete che lavoravano sui resti di un Romanticismo che vedevano ormai infranto nel presente e che Fuchs, forse non meno tormentato di loro, cercava piuttosto di ricomporre con ostinazione. Di qui il carattere idilliaco della Serenata e tuttavia, nel finale, l’emergere di un’ombra, un inizio nella tonalità di re minore destinato però a schiarirsi nella luce del re maggiore conclusivo. È come se con la Serenata n. 1 Fuchs avesse mostrato che il modello del Romanticismo potesse funzionare da argine protettivo contro le forze centrifughe del proprio tempo e perciò, parafrasando un celebre aforisma di Ennio Flaiano, egli sentisse di poter fare progetti solo per il passato.
Stefano Catucci
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24 ottobre 2023
Ouverture, Scherzo e Finale è una composizione che risale a uno degli anni di grazia di Schumann, il 1841, e con la quale ha cercato una soluzione poetica per liberarsi dalle forme classiche della sinfonia. Il passaggio del materiale melodico da un movimento all’altro e l’idea di non adeguarsi alla scansione tipica dei movimenti del genere sinfonico sono già due indizi in questa direzione. Aveva scritto, in un intervento critico pubblicato nel 1839, che nelle sinfonie del suo tempo i primi movimenti somigliavano a Ouvertures, gli Scherzi erano diventati qualsiasi cosa tranne che Scherzi, i Finali sembravano non sapere niente di quello che li precedeva. Il titolo scelto, così, è costruttivamente una risposta a quella situazione, un atto di sincerità musicale che sposta il centro di gravità della scrittura sinfonica dalle strutture alle melodie e all’armonia. La decisione di rinunciare al movimento lento, inoltre, è coerente con un desiderio di leggerezza di fatto insolito nella musica di grandi ambizioni come è, a conti fatti, anche questa sua gemma.
La Quinta è la Sinfonia di Beethoven che più ha fatto versare inchiostro ai critici sia al tempo delle sue prime esecuzioni sia oggi. L’intero corpus sinfonico di Beethoven sembra esemplarmente riassunto in questo capolavoro il cui merito è stato anzitutto quello di ampliare in modo impressionante la sintassi della musica orchestrale, oltre che di innalzarne senza limiti le ambizioni. Tutta la teoria romantica della musica guarda in fondo agli orizzonti aperti da questa Sinfonia, un’opera peraltro dalla gestazione particolarmente laboriosa e dal successo non immediato. Wilhelm Furtwängler, uno dei grandi direttori d’orchestra del secolo scorso, ha scritto che «l’inizio della Quinta è così insolito da apparire unico in tutta la storia della musica. Non ci troviamo di fronte a un tema nel senso corrente del termine, ma a quattro battute che svolgono il ruolo di un’epigrafe, di un titolo a caratteri cubitali». La concisione e l’incisività, se non proprio il carattere aggressivo della musica, sono del resto aspetti che fuoriescono in modo radicale dalla costruzione tipica delle sinfonie di allora. Se si pensa che Beethoven, a 38 anni, la ultimò mentre già lavorava alla Sesta, la Pastorale, il contrasto non potrebbe essere più grande.
I quaderni di lavoro di Beethoven contengono preziose informazioni per ricostruire il percorso creativo della Quinta. I primi abbozzi risalgono all’anno 1800, mentre nei taccuini del 1804, quelli relativi al Fidelio, si trovano annotate alcune idee per il movimento di apertura. Altri appunti sono sparsi ai margini della stesura di altri lavori, come il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 e la Quarta Sinfonia. L’ultima fase di elaborazione dura un anno intero, dall’aprile del 1807 all’aprile del 1808, quando tutta una serie di idee che riguardano in particolare l’ultimo movimento vengono continuamente cancellate e rimesse a punto. Le difficoltà non riguardavano tanto l’ideazione dei singoli episodi musicali, quanto la loro riduzione a un ordine formale. Rispetto all’Eroica, la Sinfonia n. 3, Beethoven si dimostra più esigente dal punto di vista dell’organizzazione del materiale: il rispetto dell’architettura classica è addirittura rigoroso, ma non è su questo versante che la Quinta propone le sue maggiori novità. Queste vengono piuttosto dall’orchestra, allargata a strumenti che all’epoca erano in uso solo nella musica all’aperto, come l’ottavino e i tromboni, dai cui interventi provengono sonorità giustamente definite “insurrezionali”, oppure dal modo in cui i temi vengono scolpiti, quasi fossero intagliati nella natura stessa del ritmo.
Nel 1810, due anni dopo la prima esecuzione, la «Allgemeine musikalishce Zeitung», uno dei primi periodici di informazione e critica musicale della Germania, pubblicava una recensione di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore e compositore dilettante. Questo scritto, una delle principali fonti dell’immagine romantica di Beethoven, è una straordinaria esaltazione della musica, ma segna anche l’inizio di un fraintendimento, o per meglio dire di una sovrapposizione estetica che si rivelerà fatale per la comprensione del sinfonismo beethoveniano, tanto che ancora oggi ne siamo largamente debitori. Genio, ispirazione soggettiva, moventi interiori, desiderio di assoluto, sono tutte cose che dopo Hoffmann sono come legate a doppio nodo all’immagine di Beethoven, ma che trascurano quanto il compositore fosse fedele, invece, a una visione “classica” della musica, la ritenesse cioè un’arte eloquente, suscettibile di essere costruita come un discorso capace di raccontare storie, rappresentare caratteri, descrivere situazioni. Hoffmann è stato il primo a sottolineare la qualità intellettuale dell’opera di Beethoven e a esigere che l’unità delle sue composizioni fosse ricercata non nella tecnica della scrittura, che a quei tempi sembrava invece piuttosto disordinata, ma nella riflessione da cui la Sinfonia nasceva, nel pensiero che le forniva spessore e contenuto spirituale. Non bisogna dimenticare, però, che in questo pensiero beethoveniano trovano spazio anche l’architettura, il senso delle proporzioni, l’equilibrio, insomma una misura artigianale dell’artefatto musicale al cui rispetto egli non viene mai meno.
Quando fu eseguita per la prima volta, in un’accademia del 22 dicembre 1808, la Quinta non passò inosservata, ma certo nemmeno particolarmente apprezzata, a causa della lunghezza del concerto e della qualità non sempre impeccabile delle esecuzioni che l’avevano preceduta. Beethoven aveva preparato una maratona di quasi cinque ore che comprendeva in ordine di apparizione: la Sinfonia Pastorale, presentata in quell’occasione proprio come Sinfonia n. 5; una parte della Messa in do maggiore; il Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra; la parte restante della Messa; la Fantasia per pianoforte, orchestra e coro op. 80; infine la Quinta Sinfonia, che in quella serata era indicata come Sinfonia n. 6. Durante l’esecuzione della Fantasia Beethoven, che sedeva al pianoforte, si interruppe e ricominciò da capo, non è chiaro se per un errore suo o dell’orchestra, che nelle prove si era spesso ribellata al compositore. Le prime cronache, così, non parlano affatto della Quinta, ma si concentrano soprattutto su quell’incidente. A partire da un concerto organizzato a Lipsia poco più di un mese dopo, il 9 febbraio 1809, ebbe inizio invece la storia di una fortuna che è giunta fino a noi e che non smette di contagiarci con la sua misteriosa vitalità anche quando l’avessimo ascoltata mille volte.
Stefano Catucci
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06 giugno 2023
Le ouvertures di Beethoven sono un capitolo a sé stante nella sua produzione, pagine che – come scrisse Wagner — non “anticipano” un dramma ma “sono” il dramma. Fino ad allora l’ouverture veniva di norma concepita in base a due possibili alternative: far risuonare nel brano orchestrale che introduce un’opera o una serie di musiche di scena i temi fondamentali di tutto quel che sarebbe seguito oppure non riutilizzare alla lettera i materiali successivi ma riassumerne lo spirito, il carattere, facendo così dell’introduzione una specie di commento al testo principale, rappresentato dal corpo del lavoro intero. Beethoven non percorre né l’una né l’altra strada, compiendo il primo dei passi che in epoca romantica portarono dalla sinfonia propriamente detta al poema sinfonico. Nel caso di Coriolano questo è tanto più vero perché l’ouverture non si lega a un’opera, com’è per la varie versioni di Leonora rispetto al Fidelio, e neppure a musiche di scena, com’è per l’ouverture di Le creature di Prometeo rispetto al balletto ideato nel 1801 dal coreografo Salvatore Viganò. Senza nulla che la segua, l’ouverture Coriolano fa perno su un principio di interpretazione che offre una chiave di lettura della vicenda a cui è legata.
La composizione risale al 1807, quando l’autore aveva 37 anni, e fu occasionata dalla richiesta di un letterato allora molto in voga, Heinrich Joseph von Collin, il quale aveva rielaborato per il teatro la vicenda dell’eroe romano raccontata da Plutarco nelle Vite parallele e già divenuta oggetto di un dramma di Shakespeare. Per Beethoven fu l’occasione di lavorare su un materiale psicologico ridotto all’essenziale che corrispondeva perfettamente ai due elementi contrastanti tipici della sua musica. Nei Quaderni di conversazione raccolti dall’allievo Anton Schindler li aveva definiti widerstrebende Prinzip e bittende Prinzip, “principio di opposizione” e “principio implorante”. Secondo la descrizione che ne ha dato Luigi Magnani il primo è caratterizzato «quasi costantemente da energia ritmica, da concisione melodica, da una decisa determinazione tonale», l’altro «da un tema melodico tonalmente indeterminato e modulante». Nel caso di Coriolano quei due principi si presentano senza sfumature, incarnati in due maschere teatrali che rappresentano l’una l’integrità dell’eroe che lotta contro ogni forma di potere e non si concilia con nessuna di esse — Coriolano —, l’altra un aggancio alla realtà incarnato da una donna — Volumnia —, ovvero la terra in cui anche l’eroe sente il bisogno di mettere radici.
Fin dal principio questa ouverture ha avuto una vita autonoma rispetto al dramma di Collin. Eseguita dapprima in casa del principe Lobkowitz nel marzo del 1807, fu ripresa in teatro allo Hofburgtheater il mese successivo, ma solo per poche serate. Il pianista Muzio Clementi ne aveva intanto acquistato i diritti di stampa per l’Inghilterra e, giustamente persuaso di aver concluso un buon affare, fece iniziare a questa pagina la vita concertistica che vive fino a oggi. Le anticipazioni della Sinfonia n. 5, che Beethoven avrebbe scritto di lì a poco, sono evidenti: la tonalità di do minore, la violenza delle sonorità iniziali, l’incisività ritmica delle frasi continuamente ripetute, infine la concisione con la quale tutto il materiale viene esposto e sviluppato. La continuità con l’evoluzione del linguaggio sinfonico di Beethoven non si vede però solo da quello che Coriolano anticipa, bensì anche da quello che riprende: la coda dell’ouverture, per esempio, è ricalcata sul processo di disfacimento degli elementi tematici che già aveva caratterizzato la chiusa della Marcia funebre della Sinfonia n. 3 Eroica.
Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento la storia della musica per clarinetto è strettamente dipendente dall’evoluzione costruttiva dello strumento, via via dotato di sistemi di chiavi che ne migliorarono l’intonazione, permisero di realizzare scale cromatiche più ricche, favorirono l’agilità dei virtuosi e resero più omogenea l’emissione del suono. I clarinettisti migliori furono anche quelli che si dotarono degli strumenti più avanzati e d’altra parte la loro esperienza fu uno stimolo per perfezionarli ulteriormente. Uno di questi fu Heinrich Baermann, che nell’apice della sua carriera fece parte delle orchestre di Mannheim e di Monaco di Baviera, e quanto stretto fosse il rapporto fra esecutori e costruttori lo dimostra il fatto che il figlio Carl, anche lui ottimo clarinettista, brevettò un nuovo sistema di chiavi che estese ancora le possibilità dello strumento. Weber scrisse quasi tutta la sua musica per clarinetto pensando a Baermann, anche le parti mirabili che compaiono in un’opera come Der Freischütz (Il franco cacciatore), ma certamente il suo capolavoro in questo ambito è il Concerto n. 1, scritto nel 1811, del quale Baermann fu anche il primo interprete. Tutta la delicatezza e la forza, la cantabilità e il virtuosismo, la ricchezza di sfumature che Weber trae dal clarinetto sono da mettere in relazione con l’abilità di Baermann e con la modernità del suo strumento, ormai molto diverso da quello che Mozart aveva avuto a disposizione per quel magnifico Concerto scritto pur sempre per un altro strumentista di rango, Anton Stadler. L’identificazione tra il suono del clarinetto e la voce umana è tale che Weber, nel Rondò finale, riprende una melodia concepita per l’opera Silvana, composta appena un anno prima. Operistico nel carattere è però anche il primo movimento, un Allegro nella tonalità romantica di fa minore, mentre un lirismo più intimista e sereno caratterizza il tempo centrale, Adagio ma non troppo, il quale solo nella sezione centrale assume un tratto marcatamente più inquieto.
La giovanile Sinfonia in do maggiore di Bizet, composta all’età di 17 anni ma riscoperta solo nel 1933, è una di quelle opere nate da una mano felice che probabilmente si capiscono meglio in retrospettiva, quando cioè si ha già un’idea di quel che avrebbe prodotto in seguito un autore morto a 37 anni. Con un occhio alla grande triade classica – Haydn, Mozart, Beethoven — e uno alla musica contemporanea francese — in particolare Gounod — il giovane studente di Conservatorio mostra una libertà di costruzione e di invenzione che pochi avrebbero raggiunto in una vita intera. Il senso del colore e dell’atmosfericità del suono sono già ben saldi, e se è stato lamentato un certo eclettismo stilistico, specialmente nel movimento di apertura, non si deve sottovalutare il carattere sperimentale di una Sinfonia che cerca di forzare i limiti della tradizione aprendosi verso altri generi musicali, primo fra tutti l’opera. La facilità melodica di Bizet emerge soprattutto nel movimento lento, Adagio, ma non c’è parte di questa Sinfonia che non emani fascino e non offra qualche significativa sorpresa, persino in quel finale nel quale i temi — già annunci di quanto sarebbe apparso in Carmen e in Don Procopio — si susseguono senza essere sviluppati, cioè disobbediendo ai canoni classici della sinfonia.
Stefano Catucci
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